#LAlberodelleIdee: Utopìa – Thomas More

Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è un romanzo di Thomas More (italianizzato Tommaso Moro) pubblicato in latino aulico nel 1516.

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Per la scrittura di questo romanzo, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus nell’originale) in una fittizia isolarepubblica, abitata da una società ideale, Tommaso Moro si è particolarmente ispirato all’opera La Repubblica del filosofo greco Platone, anch’essa scritta in forma dialogica. In Utopia, come nell’opera sopracitata, si ha il progetto di una nazione ideale e vengono trattati argomenti come la filosofia, la politica, il comunitarismo, l’economia, l’etica e, più specificatamente, l’etica medica. Ciò che inizialmente ispirò Tommaso Moro alla stesura di Utopia fu, probabilmente, la traduzione dal greco al latino di alcuni scritti di Luciano che egli operò congiuntamente con Erasmo da Rotterdam, in particolare di un dialogo in cui Menippo, un drammaturgo greco, scende negli Inferi e racconta il suo viaggio. L’opera ricalca pure lo schema dell’opuscolo Il volto della luna dei Moralia di Plutarco

Utopia esprime il sogno rinascimentale di una società pacifica dove è la cultura a dominare e a regolare la vita degli uomini. Giunto alla quarta edizione nel 1519, il romanzo venne poi tradotto in tedesco da Claudio Cantiuncula (1524), in fiorentino da Ortensio Lando (1548), in francese da Jean Le Blond (1550) e solo nel 1551 in inglese (da Ralph Robinson).

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Il titolo dell’opera è un neologismo coniato da Moro stesso, e presenta un’ambiguità di fondo: “Utopia”, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, parola composta dal prefisso greco ευ– che significa bene e τóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo”, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

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Utopia è divisa in 54 città (che rimandano alle 54 contee inglesi), tra le quali la capitale Amauroto. Utopia, a differenza dell’Inghilterra, ha saputo risolvere i suoi contrasti sociali, grazie ad un innovativo sistema di organizzazione politica: la proprietà privata è abolita, i beni sono in comune, il commercio è pressoché inutile, tutto il popolo inoltre è impegnato a lavorare la terra circa sei ore al giorno, fornendo all’isola tutti i beni necessari. Il resto del tempo deve essere dedicato allo studio e al riposo. In questo modo, la comunità di Utopia può sviluppare la propria cultura e vivere in maniera pacifica e tranquilla. L’isola è governata da un principe che ha il potere di coordinare le varie istituzioni e di rappresentare il suo popolo. Il governo è affidato a magistrati eletti dai rappresentanti di ogni famiglia, mentre vige il principio (rivoluzionario per l’epoca) della libertà di parola e di pensiero e soprattutto della tolleranza religiosa, che tuttavia si esprime solo verso i credenti: gli atei non sono puniti, ma sono circondati dal disprezzo degli abitanti di Utopia e sono loro precluse le cariche pubbliche. L’isola si basa su una struttura agricola ed è proprio l’agricoltura a fornire i beni utili per industrie, artigianato, ecc. Si produce solo per il consumo e non per il mercato. Oro e argento sono considerati privi di valore e i cittadini non possiedono denaro ma si servono dei magazzini generali secondo le necessità. La città è pianificata in modo tale che tutti gli edifici siano costruiti in egual modo. Esiste la schiavitù per chi commette dei reati. Anche il numero dei figli è stabilito in modo tale che rimanga lo stesso numero di persone. I figli sono accuditi e allevati in sale comuni e sono le stesse madri a occuparsene. Gli utopiani trascorrono il loro tempo libero leggendo classici e occupandosi di musica, astronomia e geometria.

Ancora una volta Moro presenta un’asprissima critica portata avanti da Itlodeo, il quale ritiene che nessuna Repubblica può essere ben governata dal momento in cui esiste la proprietà privata. La società, per funzionare al meglio, deve basarsi su principi di uguaglianza e di giustizia, caratteristiche che vengono a mancare nel momento in cui pochi cittadini vivono nel lusso e nell’agiatezza e molti, ridotti alla fame, sono costretti a lavorare duramente dalla mattina alla sera per pochi soldi. Per quanto riguarda la politica, gli utopiani si affidano a un sistema basato sulle città: tutti gli anni un gruppo di 30 famiglie elegge un magistrato chiamato filarca, che in passato veniva chiamato sifogrante. Dieci filarchi con le loro trecento famiglie sono soggetti ad un magistrato che in precedenza, come spiega Itlodeo, veniva chiamato traninboro, ma successivamente è stato nominato protofilarca. Per quanto riguarda le elezioni del magistrato supremo, ogni città viene divisa in quattro zone ed in ogni zona viene scelto un aspirante da portare a consiglio. Tutti i sifogranti (duecento), dopo aver giurato che la loro scelta ricadrà su chi ritengono migliore, scelgono a suffragio segreto tra i candidati elencati dal popolo. La carica di magistrato supremo è valida per tutta la vita, a meno che l’eletto non sia sospettato di aspirare alla tirannia: in tal caso viene deposto. I traninbori vengono nominati ogni anno, ma non vengono cambiati se non vi sono buoni motivi per farlo; essi si riuniscono in consiglio con il magistrato supremo ogni tre giorni o più spesso se lo ritengono necessario. Ogni famiglia risponde agli ordini del membro più anziano, il quale ha il compito di recarsi al mercato, situato al centro di ogni città, e di prendere il necessario per la propria famiglia. Vestiti, oggetti ed ogni tipologia di genere alimentare sono completamente gratuiti, ma tutti stanno ben attenti a prendere solamente il necessario, poiché non avrebbe alcun senso prendere più di quanto realmente hanno bisogno dal momento in cui possono prendere ciò che vogliono ogni volta che vogliono.

Utopia viene descritta come una repubblica ideale, perfetta, e l’unica che può essere chiamata repubblica, poiché mentre negli altri paesi si parla di interessi pubblici, in realtà si curano solamente gli interessi privati, mentre a Utopia, non esistendo la proprietà privata, ognuno pensa al bene comune. La proprietà privata porta come conseguenza l’avidità: dato che negli altri stati il singolo individuo non è tutelato, esso ha la necessità di provvedere all’accumulo del suo capitale per evitare di cadere in disgrazia. A Utopia, essendo tutto in comune, non vi è pericolo che a qualcuno manchi il necessario fintanto che i magazzini comuni saranno ricolmi. Ciò che non funziona negli altri paesi è l’arricchimento di pochi, oziosi, nobili che non fanno altro che circondarsi da fannulloni e non svolgono alcun tipo di mestiere, mentre i poveri lavoratori non hanno alcuna tutela nel caso si ammalino e quando, costretti dalla vecchiaia, hanno bisogno di abbandonare il loro lavoro. L’ingiustizia consiste nel fatto che lo stato premia chi vive nell’ozio e nel lusso, anziché chi lavora per il benessere dello stato o della stessa comunità.

  • Thomas More, Utopia (1516),
  • a cura di Luigi Firpo, 
  • collana ‘Utopisti 4’ diretta da Luigi Firpo, 
  • Guida, Napoli 1979. 
  • Bross. ed. ill., cm 22×14, pp. 330. – 
  • ISBN: 9788870420914

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